23/02/2018 – Ammanchi dovuti a condotta fraudolenta del dirigente: i revisori non rispondono di colpa grave

Ammanchi dovuti a condotta fraudolenta del dirigente: i revisori non rispondono di colpa grave

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale dei conti e giornalista pubblicista

 

La Corte dei Conti, con la sentenza n. 44, del 5 febbraio 2018, ha assolto dalla responsabilità per colpa grave i revisori legali di un ente pubblico perché non sono stati ritenuti responsabili dei vari e ripetuti ammanchi dovuti alla condotta fraudolenta di un dirigente amministrativo.

Il caso

Con atto di citazione del 7 maggio 2015, la Procura territoriale conveniva in giudizio il direttore generale di un ente pubblico nonché la responsabile dell’ufficio ragioneria e sette componenti del collegio sindacale della medesima Agenzia a titolo di responsabilità sussidiaria per culpa in vigilando, ripartita pro quota in relazione al ruolo ricoperto ed al periodo di carica. Ai medesimi la Procura addebitava l’omesso diligente esercizio delle proprie funzioni di controllo in modo da impedire la distrazione di denaro pubblico posta in essere dal direttore amministrativo e, successivamente, direttore generale dello stesso ente, nel periodo gennaio 2004-febbraio 2014. Quest’ultimo, aveva depauperato le casse dell’Agenzia con plurime condotte consistenti in prelevamenti presso la Tesoreria mediante l’uso di falsi mandati (per oltre euro 4milioni di euro) in prelievi di denaro contante dalla cassa, in prelevamenti da un conto corrente postale costituito dallo stesso dirigente e falsamente intestato all’Agenzia sul quale venivano effettuati i pagamenti per affitti a favore dell’ente. Tutto ciò per un importo totale di circa 8,5 milioni di euro.

Per tali ammanchi, il dirigente era stato precedentemente condannato, in via esclusiva, al pagamento di tale somma dalla sezione territoriale.

Con successiva sentenza veniva assolti per difetto di colpa grave, i componenti del collegio sindacale.

Avverso tale capo della sentenza ha proposto appello il Procuratore regionale, deducendo che il primo giudice avrebbe erroneamente asserito un difetto di prova in ordine alla sussistenza della responsabilità sussidiaria dei medesimi, dal momento che dal materiale probatorio emergeva una chiara assenza dei dovuti controlli sulla modalità di pagamento dei canoni abitativi e le morosità a favore dell’ente in questione, oltre che su di un numero di circa 400 mandati falsi emessi dal dirigente condannato.

La difesa

I revisore legali opponendosi alla richiesta del Procuratore si dispiacciono della circostanza che il giudice di prime cure pur avendo escluso una propria colpa grave, avrebbe comunque evidenziato l’inadeguatezza dell’attività di controllo da parte del collegio sindacale. Inoltre, in via subordinata si gravano avverso il capo della sentenza ove è stata respinta la propria eccezione circa la presunta non attualità del danno, stante il parziale recupero delle somme sottratte dall’ex direttore generale.

Con successiva memoria i citati appellanti hanno evidenziato la presunta infondatezza dell’appello del procuratore regionale facendo riferimento alla particolare condotta illecita tenuta dal dirigente nella vicenda. Inoltre, evidenziano come non era possibile rendersi conto delle distrazioni in discorso in quanto avvenivano tramite la creazione di una contabilità separata che non risultava dai dati contabili né dal bilancio dell’ente.

L’attività dei revisori dei conti

Come indicato dalle linee guida del Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili nel corso dell’esercizio il collegio sindacale verifica la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili.

Tale verifica è attività propedeutica alla revisione legale del bilancio. La correttezza del bilancio, che rappresenta la sintesi delle risultanze contabili, è infatti subordinata alla regolarità dell’intera catena procedurale che identifica i fatti di gestione, li documenta e li rileva in contabilità.

Il collegio sindacale, tenuto allo svolgimento in modo continuativo dell’attività di vigilanza ex artt. 2403 ss. c.c., coordina le verifiche con l’attività di vigilanza, sviluppa in tali verifiche le opportune sinergie tra le due funzioni e si attiva tempestivamente, sulla base dei propri poteri, segnalando all’organo amministrativo gli errori o le irregolarità riscontrati affinché adotti opportune misure per la loro correzione, nonché per il superamento dei punti di debolezza eventualmente riscontrati nel sistema di controllo interno.

Il collegio sindacale ha diritto di ottenere dagli amministratori i documenti e le notizie necessarie allo svolgimento dell’attività di revisione. L’attività di accesso agli atti deve essere pianificata all’inizio dell’esercizio e riesaminata nel corso del lavoro di revisione in conseguenza delle specifiche esigenze della revisione legale.

L’attività di raccolta di documenti e notizie è attività delegabile al singolo componente del collegio sindacale, che agisce in attuazione del programma di revisione definito dal collegio e riferisce al collegio sul lavoro svolto. La valutazione dei risultati del lavoro svolto, della sufficienza e dell’adeguatezza degli elementi probativi raccolti e, in generale, le conclusioni del lavoro di revisione sono di competenza collegiale.

Qualora si configuri una limitazione allo svolgimento di procedure di revisione ritenute necessarie, il collegio sindacale deve considerare tale circostanza nel valutare le possibili conseguenze sul giudizio di revisione.

L’analisi della Corte dei Conti

Per la Corte dei Conti l’appello del Procuratore regionale va rigettato. Infatti, il gravame del Procuratore è impostato, esclusivamente, su di un affermato omesso diligente esercizio da parte dei degli appellati, in qualità di componenti del collegio sindacale dell’ente, della propria funzione di controllo sugli atti e le attività di tale ente, circostanza che avrebbe agevolato l’ex direttore generale dello stesso ad effettuare illecite e ripetute sottrazioni di denaro di pertinenza dell’agenzia.

La contestazione a carico degli appellati si è articolata sulla base di considerazioni già svolte in primo grado che, però, non tengono conto sia delle numerose circostanze, che si vincono dagli atti del giudizio in esame, che escludono la colpa grave di questi ultimi, già rappresentate dal primo giudice, e che si desumono, altresì, dal giudizio per responsabilità amministrativa instaurato nei confronti dell’ex direttore generale dell’ente che ha materialmente sottratto allo stesso le somme in questione, e che si è concluso con la condanna di quest’ultimo al pagamento, in via esclusiva, della somma di euro 8,5milioni.

Tali elementi attengono, in primo luogo, al ruolo di vero e proprio dominus della gestione amministrativa dell’ente in questione svolto dall’ex dirigente amministrativo, nel corso di oltre un decennio, anche quando il suo ruolo è stato quello di direttore amministrativo. Durante il corso di tali anni al dirigente è stato consentito, da parte degli altri titolari degli organi di amministrazione attiva dell’ente, di gestire l’ente in questione in piena autonomia, come risulta dalla stessa sentenza ora gravata dal Procuratore, che ha condannato per omesso esercizio di un seppur minimo controllo sull’attività di quest’ultimo sia da parte del direttore generale pro tempore dell’ente (che controfirmava o avrebbe dovuto controfirmare i falsi mandati in discorso) che, soprattutto, della responsabile del servizio ragioneria (che avrebbe dovuto istruire gli stessi prima di autorizzare il pagamento da parte del tesoriere). In proposito, occorre, altresì, evidenziare come questi ultimi risultano essere stati rinviati a giudizio per i reati di truffa e falso commessi in concorso con l’ex direttore amministrativo.

Non bisogna, poi dimenticare, come il dirigente abbia potuto usufruire anche della tacita acquiescenza di personale interno all’ente, come la propria segretaria che, come risulta dagli atti del giudizio, provvedeva a compilare, materialmente, i falsi mandati di pagamento in questione ovvero a ritirare dalle casse dell’ente somme in contanti che venivano consegnate al dirigente.

Perciò, come si vede, nell’esercizio della sua attività criminosa quest’ultimo ha potuto usufruire della totale inerzia dell’apparato amministrativo dell’ente, circostanza che rendeva, già di per sé, difficile una scoperta degli illeciti in questione da parte dei componenti di un organo di controllo che non erano in un rapporto costante e continuativo con la gestione dell’ente.

Con riguardo ai mandati privi di atti giustificativi delle relative spese è da dire che gli stessi si manifestavano formalmente regolari ed avrebbero dovuto essere controllati assieme ad un ulteriore gran numero di atti (si tratta di 400 mandati irregolari a fronte di circa 3000 mandati all’anno che i sindaci avrebbero dovuto controllare).

Tali controlli, sono stati comunque svolti a campione né il requirente, nel contestare le modalità cui lo stesso è stato svolto, indica quali tecniche alternative i componenti dell’organo di controllo avrebbero dovuto utilizzare in modo da permettere la scoperta dei falsi mandati.

Inoltre, come sottolineato da alcuni appellati, dal momento che ai controlli trimestrali era presente anche il dirigente ed è ragionevole supporre che quest’ultimo evitasse che allo stesso fossero sottoposti i mandati falsi che, come detto, costituivano una minima percentuale degli atti, di volta in volta, da esaminare da parte dei componenti del collegio.

Inoltre, risulta che le ulteriori modalità di distrazione illecita del denaro dell’ente sia avvenuta, da parte del dirigente attraverso la creazione di una contabilità occulta, che non risultava dai dati contabili né dal bilancio (creazione di una cassa in contanti presso l’URP dell’ente e costituzione di un conto corrente postale, falsamente intestato all’ex direttore generale, su cui affluivano i pagamenti degli affittuari degli immobili dell’ente e su cui quest’ultimo poteva liberamente operare). Si tratta di una contabilità che lo stesso Procuratore riconosce non essere mai stata portata a conoscenza dei sindaci. Infine, occorre sottolineare come il trend delle riscossioni dei canoni da parte dell’ente in questione era in linea con quelli degli altri analoghi enti e tale circostanza non è stata smentita dal Procuratore.

In definitiva, come correttamente rilevato dal primo giudice, va esclusa una colpa grave nel comportamento dei revisori dei conti.

Corte dei conti, Sez. I App., 5 febbraio 2018, n. 44

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