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Il caso delle province.

La politica torni ad interpretare

le esigenze vere della gente

di Salvatore Sfrecola

 

Sono da sempre un lettore attento di quel che scrive Sergio Rizzo, non soltanto negli editoriali sul Corriere della Sera, ma anche nei libri-inchiesta sugli sprechi e sulle disfunzioni del “sistema Italia”, male gravissimo che da troppi anni condanna questo Paese all’inefficienza. Oggi ha scritto sul Corriere “Le province che mai spariranno”, un pezzo molto documentato, com’è nel suo stile, quanto agli effetti della attuale situazione organizzativa degli apparati, compresi quelli statali con competenza provinciale, dalle Prefetture alle Questure, passando per gli uffici finanziari, i Gruppi dei Carabinieri e della Guardia di finanza e per tutte le altre strutture articolate sul territorio. Un quadro che delinea antiche criticità, come la mancata riforma della pubblica amministrazione “tanto fortemente osteggiata alla burocrazia”, recentemente bocciata dalla Consulta.

Descritta così la vicenda, chi leggesse superficialmente sarebbe indotto a ritenere che la Corte costituzionale abbia in qualche modo seguito le critiche dei pubblici dipendenti. La verità è che quella riforma faceva acqua da tutte le parti, scritta da chi non conosce i problemi della gestione amministrativa e finanziaria dello Stato, come accade ed è accaduto per tante altre iniziative legislative con le quali il governo e il Parlamento hanno pensato di risolvere i problemi sulla base di scelte ideologiche o, più spesso, di preconcetti. Quando non si è scelta la strada di rinviare la risoluzione dei problemi, ad esempio in materia di pensioni, sulle quali sono state fatte manovre a fini di contenimento della spesa utilizzando strumenti che si sapeva sarebbero stati dichiarati incostituzionali (come nel caso del blocco dell’adeguamento al costo della vita). Governo e Parlamento hanno scelto una strada che sapevano sarebbe stata interrotta dall’intervento della Consulta. Hanno preferito far fronte a un’esigenza immediata, di cassa, ma con l’effetto di trasferire l’onere sul governi successivi.

Tornando alle province, un siffatto modo di affrontare i problemi tanto gravi, come sono quelli del funzionamento dello Stato, anche quando documentato come fa l’articolo di Rizzo, non è produttivo di effetti positivi sul dibattito delle idee a livello politico e tecnico e sulle scelte degli italiani quando saranno chiamati alle urne.

La verità è che la riforma delle province è un pasticcio grande, conseguenza della legge Delrio, che ha voluto anticipare la riforma costituzionale con la quale si intendeva abolirle, contando sulla sua approvazione con la sicumera che ha caratterizzato l’esperienza di governo di Matteo Renzi, svuotando non il ruolo, come avrebbe potuto fare, ma i bilanci di questi enti, mantenendo integre le loro attribuzioni tra le quali, fondamentali, quelle sulla manutenzione delle strade e degli istituti scolastici.

Va detto innanzitutto che se le province sono previste dall’art. 114 della Costituzione come articolazione della Repubblica, il loro numero e le loro attribuzioni sono riservate al legislatore ordinario il quale avrebbe potuto da tempo intervenire. Invece, le attribuzioni non sono state modificate e il numero è cresciuto nel tempo per soddisfare ambizioni locali, di partiti e di lobby, con le conseguenze che Rizzo denuncia e obiettivamente determinano le disfunzioni che segnala.

In una visione più ampia e più realistica della vicenda si dovrebbe riflettere sul ruolo di questi enti che, si dimentica molto spesso, costituiscono la struttura sovracomunale più vera, più autentica, meglio rispondente alla storia, alle tradizioni, alla cultura delle nostre popolazioni in quanto identificano territori che hanno una comunanza di interessi economici e ambientali vicini alle esigenze delle popolazioni. Non a caso, all’indomani della costituzione del regno d’Italia, nel 1862, il ministro dell’interno Marco Minghetti si fece promotore di una iniziativa legislativa, che poi non ebbe corso per le difficoltà di quel momento storico, diretta alla costituzione di “consorzi di province” che avrebbero dovuto svolgere quel ruolo che prima indicavo di rappresentanza degli interessi di vasti ambiti territoriali accomunati da storia e da esigenze attuali dall’economia all’ambiente, come si è fatto cenno. Molto più delle regioni, che l’esperienza insegna essere inutilmente costose (basti pensare agli “Uffici di rappresentanza” a Roma e a Bruxelles) le quali appaiono delle sovrastrutture artificiosamente costruite su ambiti territoriali molto diversificati. Basti pensare alla regione Lazio, che comprende territori culturalmente di pertinenza della Toscana, come la provincia di Viterbo, o dell’Abruzzo, come la provincia di Rieti, per non dire di vaste aree più meridionali che gravitano sulla Campania.

In sostanza quando Rizzo mette in evidenza le disfunzioni dell’attuale sistema amministrativo italiano decentrato a livello provinciale denuncia un fatto vero che sarebbe stato agevole superare attraverso una ragionevole riorganizzazione degli enti e degli uffici sul territorio accorpando Prefetture e Questure. I comandi dei Carabinieri e della Guardia di finanza o dei vigili del fuoco o le sovrintendenze, al di là del numero delle province.

La verità è che le province sono aumentate di numero per interessi locali che l’Esecutivo e il Parlamento non sono stati capaci di contrastare. In questo contesto è necessario che il governo dello Stato sia messo in mano a personalità di elevata competenza e autorevolezza, in modo che si giunga ad un riordinamento dell’amministrazione secondo esigenze attuali, funzionali all’interesse pubblico e non a quello di consorterie locali, politiche o diversamente qualificabili. In sostanza è una debolezza della politica che viene denunciata attraverso la giuste segnalazioni di Rizzo e di tutti coloro i quali si sono occupati della pubblica amministrazione nella sua articolazione centrale e territoriale. Perché non è dubbio che distonie esistano anche a livello centrale con duplicazioni di competenze che rendono incerta l’azione dei governi e difficile la vita e i cittadini e delle imprese.

E qui torniamo ad una mia vecchia segnalazione, quella che prima di ogni altra cosa i governi dovrebbero provvedere alla riforma della pubblica amministrazione. Io credo da sempre, infatti, che un politico serio, nel momento in cui assume la responsabilità di un settore dell’amministrazione pubblica, e questo vale per lo Stato come per le regioni, le province e i comuni come prima cosa debba verificare se, in relazione all’indirizzo politico che intende imprimere alla sua azione di governo secondo le indicazioni del corpo elettorale, le leggi che disciplinano la attribuzioni e l’apparato siano funzionali a quegli obiettivi. Perché se ciò non è si deve rapidamente provvedere all’adeguamento delle norme sulle attribuzioni, che potrebbero essere in parte superate o diversamente gestibili, e sul personale, ad esempio quanto alle professionalità richieste che spesso non sono quelle del tempo lontano nel quale sono state disegnate le funzioni dell’ente. Un esempio per tutti. Qualche anno fa gli uffici pubblici erano dotati di un rilevanti numero di dattilografi che con l’introduzione dell’informatica sono stati praticamente eliminati in quanto alla redazione degli atti amministrativi i funzionari provvedono direttamente.

In sostanza, è necessario che la politica torni a fare il suo mestiere, ad individuare i problemi ed a risolverli nell’interesse generale e non di quelli particolari che i partiti alimentano o subiscono sul territorio.

17 gennaio 2017

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