16/06/2016 – Legittimo il licenziamento del dipendente che conferma il rifiuto nel compiere i propri compiti di ufficio

Legittimo il licenziamento del dipendente che conferma il rifiuto nel compiere i propri compiti di ufficio
 

Gli ermellini affrontano due questioni di particolare interesse, la prima sulla legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente pubblico che confermi la propria volontà a non svolgere i compiti di ufficio a lui demandati e, l’altra circa la validità di un Ufficio del Procedimenti Disciplinari costituito in forma monocratica anziché collegiale. Sulla prima questione, evidenziano i giudici di Palazzo Cavour come, il rifiuto reiterato a svolgere incarichi assegnati al lavoratore, qualora gli stessi siano conformi alla declaratoria contrattuale del dipendente, giustificano il licenziamento per giusta causa. Per quanto riguarda, invece, la costituzione monocratica e non collegiale dell’Ufficio Procedimenti disciplinari, tale costituzione appare pienamente legittima, sia in merito alle disposizioni legislative che rimettono all’autonomia di ciascuna amministrazione l’individuazione dell’ufficio competente, sia per quanto riguarda le disposizioni contrattuali, mai mutate nel tempo, le quali prevedono, anche in questo caso, che ai fini della istituzione e composizione dell'”ufficio istruttore” dei procedimenti disciplinari lo stesso sia rimesso all’ordinamento di ciascuna amministrazione.

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La costituzione dell’Ufficio Procedimenti Disciplinari in forma monocratica è legittima essendo rimessa all’autonomia della PA
di Vincenzo Giannotti – Dirigente del Settore Gestione Risorse (Umane e Finanziarie) del Comune di Frosinone

Dopo la dichiarazione di invalidità del licenziamento per giusta causa di un dipendente comunale, da parte del Tribunale di prima istanza, la Corte di Appello, in riforma della sentenza di prime cure lo dichiara legittimo, per aver la dipendente ripetutamente rifiutato di svolgere determinati incarichi che le erano stati assegnati. In merito ai compiti assegnati alla dipendente, il Tribunale di prime cure li aveva giudicati, pur conformi alla declaratoria contrattuale del dipendente (Cat. D3), escludenti compiti specifici delle competenze professionali della dipendente, da cui ne discendeva l’illegittimità del licenziamento. La Corte di Appello evidenzia come la giurisprudenza di legittimità abbia assegnato rilievo solo al criterio della equivalenza formale, in riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita dai dipendenti, senza che possa aversi riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 c.c. e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle mansioni. Verificata la legittimità del licenziamento, la Corte di Appello ha anche affrontato il problema della legittimità della costituzione dell’UPD in forma monocratica, considerando tale scelta non contraria alla legge in quanto rimessa alla piena autonomia dell’ente locale.

Avverso la citata sentenza, ricorre il dipendente in Cassazione evidenziando l’illegittimità del licenziamento in quanto comminato a fronte di compiti non rientranti nel proprio profilo professionale, per violazione dell’obbligatoria costituzione collegiale dell’UPD, e per tardività della conclusione del procedimento disciplinare, emesso oltre i 15 giorni previsti dalla normativa contrattuale e legislativa.

Le motivazioni della Suprema Corte

Gli Ermellini, in conferma della sentenza dei giudici di Appello, dichiarano i motivi del ricorso del dipendente infondati per le seguenti rilevanti motivazioni.

– Sulla composizione monocratica dell’UPD. Evidenziano i giudici di Palazzo Cavour come sia le disposizioni legislative che quelle contrattuali rimettono alla piena autonomia dell’amministrazione la forma e le modalità di costituzione dell’UPC. In particolare l’art.55, D.Lgs. n. 165 del 2001 prevede, al quarto comma, che “… ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari … “, in modo non dissimile anche le disposizioni contrattuali (art. 24, comma 2, del CCNL enti locali del 6 luglio 1995 non modificato dai contratti successivi), le quali prevedono che fini della istituzione e composizione dell'”ufficio istruttore” dei procedimenti disciplinari rimanda all’ordinamento di ciascuna amministrazione (“ufficio istruttore individuato secondo l’ordinamento dell’amministrazione”), non dettando regole tassative circa la composizione dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, rimettendo la relativa determinazione a ciascuna amministrazione. Pertanto, in mancanza di specifiche norme che impongano la costituzione di un ufficio articolato e plurisoggettivo, lo stesso può ben essere rappresentato da una sola persona ed interna all’ente: in materia di pubblico impiego privatizzato, ciascuna amministrazione ha, infatti, il potere di individuare l’ufficio competente ai provvedimenti disciplinari secondo il proprio ordinamento (Cass. Civ., 3 giugno 2004, n. 10600;Cass. Civ., 30 settembre 2009, n. 20981). Non vi è, infine, alcuna norma che imponga la struttura collegiale dell’UPD (cfr. Cass. Civ. n. 12245 del 2015);

– Irrogazione della sanzione disciplinare dopo 15 giorni. Le disposizioni legislative e contrattuali prevedono che il provvedimento disciplinare debba essere emesso trascorsi inutilmente il termine di quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente. Tale termine breve, rispetto alla normale conclusione del procedimento disciplinare, si realizza solo ed esclusivamente quando il dipendente non abbia svolto le sue difese, solo in questo caso si verifica l’ipotesi di decorso inutile del tempo previsto dalla norma. La mancata presenza del dipendente in audizione non integra il decorso inutile se lo stesso abbia, come nel caso di specie, presentato le proprie memorie scritte, in questo caso essendo stato assicurata la difesa del dipendente, si riespandono i termini più ampi per la conclusione del procedimento (120 giorni dall’inizio). Inoltre, precisano gli Ermellini, solo il termine finale per la conclusione del procedimento disciplinare è perentorio, mentre il termine per la contestazione -meramente interno e funzionale a scandire le fasi del procedimento disciplinare stesso- ha carattere ordinatorio, trovando tale interpretazione riscontro nella espressa perentorietà riconosciuta anche a detto termine dalle successive disposizioni pattizie, aventi valenza non retroattiva (Cass. Civ. 24577 del 2013);

– In merito alle mansioni equivalenti. Sulla questione della equivalenza delle mansioni, evidenzia il Collegio contabile, come le disposizioni speciali per i pubblici dipendenti, rispetto a quelli previste per i lavoratori privati, sono rintracciabili nell’art. 52, D.Lgs. n. 165 del 2001, il quale ha sancito il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi. Trattasi di equivalenza “formale”, ancorata cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. Ne segue che, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A.. Pertanto, restano insindacabili tanto l’operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l’operazione di verifica dell’equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria. Le norme contrattuali delle Autonomie Locali precisano, infatti, che “Ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, tutte te mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente l’equivalenti, sono esigibili, l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro“. Nel caso concreto, la Corte di Appello, all’esito dell’accertamento di merito, ha compiutamente verificato l’equivalenza tra i profili esemplificativi descritti nella categoria D e precisamente, quanto alle mansioni oggetto delle funzioni assegnate e contestate, ha ritenuto che il profilo professionale identificabile alla stregua delle mansioni assegnate al dipendente, rientrasse, al pari del profilo professionale in precedenza rivestito, nelle esemplificazioni dei profili della categoria D, in un contenuto da considerare equivalente e fungibile.

Conclusioni

Sulla base delle sopra evidenziate motivazioni gli Ermellini confermano il licenziamento per giusta causa del dipendente e, per il principio di soccombenza lo condanna anche alla refusione delle spese di giudizio.

 

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