11/02/2016 – Assenteisti: prime riforme e già grandi problemi

Assenteisti: prime riforme e già grandi problemi

L. Oliveri (La Gazzetta degli Enti Locali 25/1/2016)

Sulla qualità complessiva della “riforma della p.a.” innescata dalla legge 124/2015 era lecito porre più di un dubbio.

Guardando all’esito dei primi schemi di decreti legislativi attuativi approvati mercoledì 19 gennaio dal Governo, i timori appaiono confermati, soprattutto per quanto concerne proprio l’azione riguardante il lavoro pubblico.

Mentre ancora ci si orienta tra la torrenziale produzione di norme, non potendo far a meno di prendere atto della sostanziale frettolosità dell’elaborazione dei testi (ancora comunque non del tutto consolidati), non si può fare a meno di restare estremamente perplessi di fronte a quello che regola il licenziamento dei cosiddetti “furbetti del cartellino”, o, meglio, frodatori che attestano falsamente la propria presenza in ufficio.

Si tratta, naturalmente, della norma simbolicamente più forte, quella in grado di catalizzare l’attenzione di tutti i media e portare premier e Ministro della funzione pubblica agli onori della cronaca e sugli spalti delle trasmissioni televisive di approfondimento.

Il tema è delicatissimo. Ad un tempo: non si può non concordare sulla necessità di una regolamentazione più che rigorosa contro inaccettabili comportamenti che discreditano la p.a., comportano sprechi ed abusi odiosi e da reprimere senza alcuna esitazione; ma non si può non constatare come si tratti di un argomento “nazionalpopolare”, formidabile per acquisire consensi facili e anche distrarre da temi meno popolari, come banche, economia, rapporti con la UE.

Stiamo, però, ai fatti. Il Governo ha adottato un provvedimento che rende più veloce e semplice lasciare a casa i truffatori che fingano di essere presenti in ufficio mentre sono intenti in tutt’altre faccende, coloro che con loro collaborano ed i dirigenti che si siano voltati dall’altro lato per ragioni di comodo.

È una risposta evidente al caso troppo clamoroso per non chiamare iniziative normative, come quello del comune di San Remo, ove è sembrato manifesto a tutti che si fosse instaurato un clima di tacita solidarietà ed organizzazione di un vero e proprio sistema dell’assenteismo.

Il Governo, dunque, ha mostrato la faccia dura ed irreprensibile, adottando una serie di accorgimenti, che si innestano in una disciplina normativa che, è bene ricordarlo, consente da sempre di licenziare i dipendenti infedeli:

  1. l’obbligo di sospendere in via cautelare il dipendente colto in flagrante, o pescato da strumenti di registrazione visiva, ad attestare falsamente la propria presenza, entro 48 ore dalla conoscenza del fatto;
  2. l’ampliamento della fattispecie dell’assenteismo, riguardante ogni tipo di falsa attestazione della presenza in servizio;
  3. l’obbligo di attivare immediatamente il procedimento disciplinare nei riguardi dell’interessato;
  4. l’accorciamento del termine di durata del procedimento che da 120 giorni ripiega in 30 giorni;
  5. la previsione espressa che accanto alla responsabilità disciplinare e penale il dipendente vada incontro alla responsabilità amministrativa per danno all’immagine, sanzionata almeno con sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia;
  6. la responsabilità disciplinare, sanzionata col licenziamento, nei riguardi dei dirigenti che omettano di applicare la sospensione cautelare o di avviare l’azione disciplinare, accompagnata dalla specificazione che ciò implichi omissione d’atti d’ufficio.

Il disegno complessivo, finalizzato ad una rilevante stretta su comportamenti assolutamente riprovevoli non può che essere favorevolmente accolto.

Purtroppo, però, l’approfondimento di una riforma in sede tecnica non può limitarsi a quello, general generico, tipico di tribune giornalistiche, nelle quali si parla per 30 secondi.

Soprattutto, il modo di scrivere le riforme dovrebbe richiedere approfondimenti e competenze tecniche, che nel caso del decreto riguardante i licenziamenti appaiono, oggettivamente lacunose, al punto tale da poter inficiare l’intera norma, se non sia corretta e molto rispetto al testo fatto circolare fino a questi giorni.

Vediamo quali sono i tanti problemi che derivano dal testo per ora disponibile.

Termine per la sospensione cautelare. Si dispone che si tratti di 48 ore dal momento della conoscenza dell’evento fraudolento.

La norma non indica, tuttavia, come si determini tale conoscenza. Non è questione da poco. Il problema di come determinare quando si viene a conoscenza di un fatto è sempre molto rilevante, ma nel caso di specie è la brevità delle 48 ore entro le quali si deve agire che mette la decisione di adottare la sospensione a rischio di una delibazione estremamente sommaria.

I difensori dei dipendenti infedeli potrebbero avere buon gioco nell’evidenziare l’illiceità della sospensione, dovuta a sforamento del termine per non chiara individuazione del momento della conoscenza.

Sta di fatto che anche laddove gli enti disponessero di strumenti di registrazione visiva, occorrerebbe che qualcuno stesse a controllare i filmati. Le 48 ore, allora, potrebbero decorrere dall’esame dei filmati stessi. Il tutto andrebbe verbalizzato.

Ammettiamo che ciò sia doveroso ed anche fattibile. Ma: quante volte i filmati debbono essere visionati? Ogni giorno? E quanto dura la visione di un filmato che riprenda i dipendenti a timbrare? Teoricamente, tutta la giornata lavorativa, perché la frode si ha anche nell’ipotesi in cui un dipendente timbri un’uscita di servizio, per poi andare a giocare a bowling. Quindi, la visione del filmato deve durare ore ed ore, anche al netto di velocizzazione delle immagini?

L’ente, comunque, dovrebbe dotarsi di un modo per prendere visione di file di immagine molto pesanti, da trasmettere per la visione. Chi dovrebbe visionare? Il dirigente di settore o il vertice dell’ufficio dei procedimenti disciplinari?

Un conto sono le visioni dei filmati realizzate dalle Forse dell’ordine che fanno questo per mestiere, sicchè è necessario che scandaglino nei dettagli i file, altro è immaginare che i dirigenti pubblici dedichino la loro attività alla visualizzazione dei file.

Ovviamente, potrà essere di grande aiuto il whistelblowing e la flagranza, che, comunque, richiede evidentemente una testimonianza: non basta che il dirigente, da solo, si avveda della timbratura farlocca.

Termine: ordinatorio o perentorio? Altro problema rilevantissimo che pone il frettoloso testo della norma concerne proprio la qualificazione del termine per emettere il provvedimento di sospensione cautelare. È perentorio, nel senso che decorse le 48 ore non si possa più procedere; oppure, ordinatorio e, dunque, la sospensione può essere decisa anche oltrepassate le 48 ore?

Secondo il testo circolato, la violazione del termine per emanare la sospensione cautelare non determina la decadenza dall’azione disciplinare. Questo appare scontato: la sospensione ed il procedimento disciplinare sono fattispecie autonome.

Ma, poi, si specifica che la violazione delle 48 ore non comporta l’inefficacia della sospensione cautelare. Questo è un problema grave. C’è da capire, infatti, il termine a quale funzione assolva. Si comprende che, a questo punto, non sarebbe perentorio, ma ordinatorio-acceleratorio, posto, cioè, soprattutto a beneficio dell’azione amministrativa, in modo da indurla ad agire il più presto possibile.

Peccato, però, che nel caso di specie non si verta in tema di azione amministrativa, ma di gestione dei rapporti di lavoro e, dunque, si incida su posizioni giuridiche soggettive aventi valore di diritti ed obbligazioni. Il termine di 48 ore, allora, dovrebbe considerarsi posto a beneficio del lavoratore, che dovrebbe vedere così tutelata la propria posizione, soprattutto perché la sospensione viene disposta senza che il dipendente sia allo scopo ascoltato per contro dedurre. Ma, se, invece, è possibile adottare il provvedimento monitorio anche oltre il termine previsto, il diritto alla difesa viene del tutto travolto. Regge una costruzione simile rispetto alla Costituzione?

Ancora, il testo precisa che sebbene lo sforamento delle 48 ore non comporti l’inefficacia della sospensione, resta salva la responsabilità del dipendente “che ne sia responsabile” (come se la responsabilità incomba su chi ne sia irresponsabile…). Ma di quale responsabilità si tratta? Disciplinare, amministrativa, dirigenziale? E, perché dovrebbe esservi responsabilità, se il termine non è decadenziale? Forse che chi ha scritto la norma teme che un giudice potrebbe comunque considerare il termine delle 48 ore inviolabile, proprio per le ragioni che abbiamo descritto sopra? E, allora, perché scrivere che il termine è di 48 ore, ma tuttavia lo sforamento non priva di efficacia la sospensione, ferma restando una non chiara responsabilità per chi violasse un termine non decadenziale?

Obbligo di attivare “immediatamente” il procedimento disciplinare. Cosa vuol dire attivare “immediatamente”? Una risposta potrebbe essere: “senza ritardo”. E’ una tautologia: ciò che è immediato, e, dunque, istantaneo, non può avere ritardo.

Siamo al punto di prima. I termini, nei procedimenti posti in essere per decidere sulle situazioni giuridiche soggettive di terzi configurate come diritti soggettivi, sono sempre posti a garanzia della difesa.

È assolutamente necessario che l’accusato (per quanto possa essere odioso il comportamento del quale viene considerato autore) anche se colto in flagranza, possa contare su termini a propria difesa.

Tra questi, fondamentale è il termine entro il quale deve avere inizio il procedimento che possa portarlo a dover subire un’afflizione molto rilevante, come possa essere il licenziamento.

Il d.lgs. 165/2001, come riformato dalla legge Brunetta, regola il procedimento disciplinare in modo rispondente ai normalissimi principi esposti sopra e, quindi, stabilisce termini certi e computabili entro i quali attivare il procedimento disciplinare, senza lasciare margini di incertezza.

Un cavillo sulla “immediatezza” dell’attivazione dell’azione disciplinare può determinarne la illiceità in sede di giudizio.

Durata del procedimento disciplinare. Collegato al precedente paragrafo è il problema ancora più rilevante dell’accorciamento della durata del procedimento da 120 a 30 giorni.

Il testo del decreto legislativo si dimentica una cosa fondamentale: la necessità di coordinarsi con quanto prevede l’articolo 55-bis, comma 2, del d.lgs. 165/2001 che fissa in modo netto i termini procedurali.

Nel caso delle sanzioni disciplinari gravi, come il licenziamento, si impone di convocare il lavoratore non prima di 20 giorni perché egli esponga le proprie difese. Si badi che la riforma prevede che questo lavoratore abbia già subito una sospensione cautelare senza aver potuto esporre alcuna controdeduzione.

Dei 30 giorni disponibili, 20, almeno 20 (dipende poi da come cadono le scadenze nei calendari) sono letteralmente mangiati ed inutilizzabili, per garantire l’audizione. La bozza di decreto non ha ridotto il termine minimo per ascoltare il dipendente. Sicché, all’ufficio dei procedimenti disciplinari restano 10 giorni soltanto per completare l’istruttoria, emettere il provvedimento di licenziamento e notificarlo.

Chi ha scritto lo schema di decreto legislativo evidentemente non ha specifica esperienza della gestione di procedimenti disciplinari, né si è curato dell’armonizzazione delle norme tra loro, forse abbagliato dall’idea che tutto possa essere facile, perché il lavoratore è stato colto “in flagranza”. Ciò può consentire procedimenti “per direttissima”, ma l’accelerazione dell’avvio dei procedimenti non può essere confusa con l’abbreviazione dei procedimenti stessi, tale da non consentire lo sviluppo accurato dell’istruttoria. È, insomma, l’equivoco che da anni riguarda i procedimenti penali, che si vorrebbero accelerare abbreviando i termini della prescrizione, invece di rendere più lineari e meno gravosi gli adempimenti.

Nel caso di specie, lo schema di decreto lascia intatti i 20 giorni per convocare il dipendente per le sue difese, e riduce ad un quarto i termini finali. Col risultato che molti “furbetti” potrebbero farla franca proprio per violazione dei termini finali.

Dovesse ripetersi un caso come San Remo, nel quale siano in centinaia gli assenteisti, nessun ufficio dei procedimenti disciplinari potrebbe mai chiudere tutti i procedimenti in tempo.

Licenziamento dei dirigenti e loro responsabilità. Siamo proprio così sicuri che la mancata emanazione della sospensione cautelare, la mancata comunicazione del fatto all’ufficio dei procedimenti disciplinari e l’omessa attivazione del procedimento stesso costituiscano necessariamente violazione disciplinare, che giunga fino al licenziamento?

La norma ha uno scopo molto chiaro, mutuato dalle cosiddette “regole di caserma”: qualcuno deve comunque pagare. Lo chiede l’opinione pubblica. Sicché si vuole spingere il dirigente comunque a sospendere, comunque a denunciare, comunque ad attivare l’azione disciplinare. Per dare mostra che la p.a. passi dai 220 licenziamenti all’anno non si sa bene a quale altro obiettivo numerico: 1.000, 10.000, 100.000?

La norma è scritta, nella sostanza, in modo da non dare possibilità alcuna ai dirigenti di scelta: in presenza della percezione dell’infrazione, giù subito con sospensione, comunicazione ai fini dell’avvio dell’azione disciplinare ed immediata sua instaurazione. Senza tempo e fiato per poter effettuare anche solo verifiche sommarie, che magari potrebbero escludere da equivoci.

Insomma, si cercano l’esemplarità e frenesia. Col rischio che tutto, poi, sia rimesso alla decisione del giudice del lavoro ed il connesso ulteriore rischio dell’esplosione del contenzioso.

Lo schema, ancora, precisa che l’omissione degli adempimenti indicata prima sia da configurare come “omissione d’atti d’ufficio”. Non ci vuole certo troppo a comprendere che la violazione di obblighi d’ufficio implichi la commissione del reato di cui all’articolo 328 del codice penale. Peccato, però, che la fattispecie di reato ivi prevista non sia del tutto sovrapponibile a quanto immagina chi ha formulato il testo della riforma. Infatti, il comma 1 dell’articolo 328 (dedicato al rifiuto di atti d’ufficio, fattispecie che si avvicina a quella immaginata dall’estensore) dispone: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta  un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”. Non è proprio evidentissimo che gli atti imposti dallo schema di decreto rientrino in nessuna delle ragioni causative della fattispecie di reato. Forse, la previsione andava scritta pensando anche in questo caso ad un’armonizzazione con le norme vigenti, modificando il codice penale.

C’è, probabilmente, il tempo per rimediare alle lacune ed ai troppi problemi posti da una norma scritta, con ogni evidenza, con troppa fretta ed al solo scopo di ottenere titoli sui giornali. Andrebbe ricordato, tuttavia, che le norme non si possono scrivere a beneficio dei lanci di agenzia o delle arene televisive, ma con la cognizione, l’approfondimento, la cura necessari ad un evoluto ordinamento giuridico.

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto